il tiranno, l'innominato e la modernità di Manzoni, di Romano Luperini
''Concludendo. L’apporto di Manzoni alla problematica moderna dell’inquietudine mi sembra di assoluto rilievo. Nei Promessi sposi l’inquietudine esce dalla sfera della vaporosità di certa letteratura romantica. Abbandona l’ambito dello “stato d’animo”, delle malinconie indeterminate e dei turbamenti amorosi, per entrare in quello della rappresentazione drammatica dei meccanismi del ritorno del rimosso e della resistenza che esso suscita. L’elemento drammatico è inoltre rafforzato dall’analisi potente e rigorosa dei rapporti di forza fra i personaggi e delle contraddizioni psicologiche di uomini dotati di grande potere e di grande autorità, nel male come nel bene. Partendo da archetipi biblici, filtrati anche dalla lezione di Dante e di Shakespeare, di Alfieri e di Pascal, nonché dei grandi predicatori francesi del Seicento, Manzoni ci offre una grandiosa rappresentazione dell’inquietudine del tiranno. La figura del despota turbato e angosciato, che dopo aver tiranneggiato il prossimo comincia a torturare se stesso, non è certo un’invenzione dei Promessi sposi, ma Manzoni ha indubbiamente contribuito a delinearla in modo più modernamente problematico. Ne è una conferma e quasi ulteriore riprova il fatto che la crisi d’identità dell’innominato sia prodotta non solo dall’incombere della morte e del giudizio di Dio, ma anche dal confronto aperto e drammatico con l’elemento femminile. ''
''I campi e lo spazio-tempo hanno una coscienza? In realtà, la teoria dei campi quantici ci dice che i costituenti fondamentali della realtà non sono minuscole particelle, ma campi universali. Le particelle sono quindi intese come eccitazioni in questi campi. Se combiniamo il panpsichismo con la teoria dei campi quantici, allora otteniamo il cosmopsicismo, secondo il quale le forme fondamentali della coscienza sono i campi di tutto l’universo, e l’universo stesso è la mente cosciente fondamentale che porta questi campi.''
''la radice della tensione nasce dall’incapacità del nostro sistema sociale, prima ancora che economico, di garantire una vita dignitosa nel lavoro e luoghi consoni e non degradati nei quali vivere. Non nasce dagli immigrati ma da chi li sfrutta selvaggiamente e ne vuole sempre più, sempre più deboli, sempre più affollati e disperati. Lo fa freddamente, semplicemente, banalmente, per pagare meno un’ora di lavoro. Per poter produrre una mozzarella ad un prezzo inferiore di quello salernitano, per fornire i pomodori alle nostre tavole a pochi centesimi, per noi.
Gli immigrati, come i cittadini ai quali loro fanno effettivamente concorrenza, sono utensili, sono solo strumenti viventi nella grande macchina produttiva interconnessa ed estesa all’intero pianeta che pretende ogni singolo giorno che la rincorsa verso il basso continui.''
Disse un commerciante: "Voglio comprare 100 maiali con 100 denari in modo tale da pagare 10 denari per un verro adulto, 5 denari per una scrofa e 1 denaro per due maialini". Dica, chi lo sa, quanti verri, scrofe e maialini dovrebbe acquistare il commerciante per spendere esattamente 100 denari?
''Tutto ciò comporta altre spese militari con denaro pubblico, mentre occorrono enormi risorse per fronteggiare le conseguenze socio-economiche della crisi del coronavirus, in particolare l’aumento della disoccupazione.
C’è però una azienda che assume: la Nato, che il 29 aprile ha lanciato «un innovativo programma per assumere giovani professionisti», ai quali promette un «salario competitivo» e possibilità di carriera quali «futuri leader e influencer».
Allorquando il sito della Parrocchia ortossa Sa Massimo Vescovo di Berlino Patriarcato di Mosca... http://www.ortodossiatorino.net/Blog.php?id=8411 narra dell'ennesimo empio conflitto canonistico territoriale nazionalistico tra il Patriarcato di Mosca attraverso Archevêché des Églises Orthodoxes de Tradition Russe en Europe Occidentale e il Patriarcato di Georgia attraverso perfino il Metropolita presidente del dipartimento degli affari esteri ed inizialmente relaziona sul conflitto in maniera pacata pur dal punto di vista del Patriarcato di Mosca e le ragioni esposte non sono del tutto peregrine. Poi alla fine arriva l'insulto ai georgiani che diventa uno sfregio versus et contra la gens d'Israele utilizzando,per comparazione, stilemi sprezzanti e immagini dell'inconscio del direttore del sito che-spero-non nascano dal brodo dei protocolli dei Savi di Sion ''Dall'altra, facciamo le nostre condoglianze alla Chiesa ortodossa georgiana, che ha perso un'altra preziosa opportunità di presentare i propri chierici come testimoni del Vangelo, e non come rabbini di ghetti etnici.'' Nessuna Ulteriore Considerazione. Solo questa conclusione
Allorquando il sito web della parrocchia ortodossa di Torino ''San Massimo Vescovo di Torino Patriarcato di Mosca pubblica una riflessione complessiva di Konstantin Shemljuk-Unione dei giornalisti ortodossi, 16 giugno 2020 ...... http://www.ortodossiatorino.net/DocumentiSezDoc.php?cat_id=35&id=8405
Nella riflessione legittimante congrua all'interno di una specifica lettura coerente con la tradizione ortodossa,ma non l'unica lettura possibile si colgono alcuni momenti che sembrano periferici ma tali non sono e che sembrano incidentali ma che,a mio avviso, sono le colonne portanti ideologiche per la successiva considerazione ecclesiale e teologica cito 'George Floyd, precedentemente condannato per possesso e distribuzione di droghe, un uomo che aveva avuto diverse condanne penali e aveva scontato delle pene nelle carceri americane,''... ''Con tutto ciò, nessuno ricorda che quest'uomo durante l'ultima rapina a mano armata tenne una donna incinta con una mano per la gola, puntandole con l'altra una pistola allo stomaco e chiedendo soldi''
''criminale assassinato,'' Nasce immediata la domanda ''Quindi l'esecuzione di George Floyd ,seppur come dire atipica,ha per caso un suo fondamento di regolarità? In fondo per la riflessione non è stato assassinato una persona,un cittadino,ma un criminale e quindi,suvvia..direbbe il giornalista Un 'malacarne'' che ha avuto,seppur atipicamente, quel che doveva ricevere George Floyd è sicuramente un rapinatore ma l'autore dell'articolo non conosce-o probabilmente non accetta,respinge e dis-prezza le garanzie costituzionali che un sistema rappresentativo e contrattualistico DEVE ,come limite all'arbitrio, riconoscere ad ogni cittadino,''criminali'' compresi Tali garanzie ,in ordine a due aspetti specifici dei diritti statuali dei cittadini,sono state recentemente confermate dalla Corte Suprema USA contro gli arbitri del potere esecutivo https://www.repubblica.it/esteri/2020/06/18/news/usa_immigrazione_corte_suprema_delibera_contro_stop_trump_a_programma_dreamers-259574173/?ref=RHPPLF-VE-I257251573-C8-P3-S3.4-T1&fbclid=IwAR3V3TFry5FkldyIIG5zWdszAiA9vaW7Dt8eGvZVmhYUMLNkSQUwC7xjuBg
Probabilmente il direttore del sito interessato alla successiva riflessione teologica non ha badato a tale impostazione e non ha potuto considerarne l'esserne colonna portante e fondamento del successivo dato teologico. Oppure...-a pensar male si fa peccato,ma ci si azzecca sempre,una felix culpa in fondo.-..il sito ci propone ecclesialmente per la riflessione teologica con piena consapevolezza questo fondamento. E' una scelta,una scelta ideologica,ma Andrebbe declarata. Nessuno di noi è esente da schieramenti ''in rebus temporalibus'' ma arruolare da essi e per essi il Vangelo,No. Non può essere consentito a Nessuno,a nessuna Roma,nè all'Antica,nè alla Nuova,nè alla Terza. Il giornalista poi immediatamente prima dei paragrafi teologici la seguente considerazione ''Non si può negare che la popolazione nera degli Stati Uniti sia stata utilizzata come schiavi per centinaia di anni. Ma è ancora così? Secondo le statistiche rilasciate dal Washington Post, la polizia degli Stati Uniti ha ucciso 1003 criminali nel 2019. Di questi, 249 erano neri, mentre 405 erano bianchi, cioè quasi il doppio! Quindi, anche i fatti più evidenti suggeriscono che non ci sono motivi per rivolte su così vasta scala.'' Quindi riduce in modalità svilente la tragedia del razzismo in america a mero dato tribunalizio da mattinale di polizia giudiziaria .Ed anche colpevolmente non dice se ci siano state o no indagini degli Affari interni sui 1003 cittadini uccisi che egli continua ,senza alcun riscontro di documentazione processuale, a definir ''criminali''.. Il che sa molto di antichi vezzi staliniani e di antichi ed attuali vezzi zaristi A questo punto un commento sulla successiva riflessione teologica è inutile. Essa nasce ideologica.Un peccato originale irredimibile
Il 28 agosto del 1963, il pastore battista Martin Luther King pronuncia il suo discorso più famoso: «I have a dream».
Il 3 giugno 2020, il capo dell'arcidiocesi del patriarcato di Costantinopoli in America, l'arcivescovo Elpidophoros (Lambriniadis) ha preso parte a una manifestazione di protesta a New York a sostegno del movimento Black Lives Matter.
L'arcivescovo ha affermato di essere venuto "per esprimere solidarietà ai fratelli e alle sorelle i cui diritti sono stati gravemente violati''
Questa la notizia in ambito ''asetticamente'' informativo
La scelta dell'Arcivescovo,coniugata all'interno di una legittima opinione,ma nulla più di un'opinione,ha causato,all'interno ecclesiale,altrettante legittime opinioni di dissenso. Nell'ambito della presenza ortodossa in Italia il sito della parrocchia ortodossa di Torino-Patriarcato di Mosca ha significativamente contestato ,a mio avviso ''in ambito politico e non tanto in ambito ecclesiale'',la scelta dell'Arcivescovo come ovvia conferma del serio''contenzioso''dentro l'ecclesialità ortodossa sulla ''questione ucraina
E riportando integralmente una riflessione di Jaroslav Nivkin
Unione dei giornalisti ortodossi, il sito declara'''È logico supporre che l'arcivescovo del Fanar abbia deciso di seguire la stessa strada e di copiare la simbiosi tra religione e potere che è stata attuata con successo in Ucraina.''
Segnalo rapidamente -senza commento alcuno-una ''un pò cosi'' riflessione del giornalista Jaroslav Nivkin'Negli Stati Uniti, non vi è alcun problema di razzismo, almeno di un tipo tanto grave da causare disordini così diffusi.''
Ma il dato politico non mi interessa..Metodologicamente riconosco alla citata riflessione la legittimità delle critiche perchè è possibile con cognizione di causa ipotizzare la natura di strategia politico-ecclesiastica e non ecclesiale del Fanar,come è anche palmare che la riflessione di critica sia in senso uguale e contrario di strategia politico-ecclesiastica e non ecclesiale
Mi interessa la tragedia ecclesiale.Con una immediata mia precisazione. Il tomos di autonomia che il Patriarcato Ecumenico ha dato ai gruppi scismatici di Ucraina in contrapposizione alla legittimità cristiana della Chiesa Ortodossa Ucraina guidata dal beneamato Metropolita Onufrij è azione ecclesialmente colpevole e divisiva e chissà per quanto tempo
Quindi lasciamo uscire di scena l'eventuale ''tuttopolitico'' Arcivescovo greco-americano .
La questione è ''altra'' E SEMPRE COME OPINIONE NEL SANO PLURALISMO DELLE OPINIONI. I cristiani dovrebbero sempre alzare la voce sin da sopra i tetti contro e verso ogni cultura ed ogni evento che,nella storicità concreta delle società,leda la singola persone ed anche le comunità e dovrebbero alzare la voce sin da sopra i tetti per opporsi a sfruttamento, a manipolazione e a soppressioni di diritti statuali della persona QUAND'ANCHE E SOPRATUTTO TALI DIRITTI SIANO ETICAMENTE IRRICEVIBILI DALLA CHIESA.
Si difende il diritto che ecclesialmente non accettiamo perchè conculcato e non si è complici di chi lo conculca e di chi statualmente lo nega
Orbene dovremmo tutti difendere il principio per il quale''''Lo Stato non professa un'etica, ma esercita un'azione politica.''-Piero Gobetti''
E se cosi non pare per quello che negli anni settanta era definito ''clericalismo di sinistra'' cosi non pare per la collocazione ''clericalismo di destra'' Insomma siamo tutti ''in partigianeria'',distinti avversari .anche ecclesialmente- ma tutti gemelli monovulari litigiosi
Appendice
Anni fa sul web un cristiano ortodosso plaudiva all'apertura di una Chiesa Ortodossa a Marzabotto''luogo -cito a memoria-simbolo del comunismo bolognese''.Dimenticava quel fratello che ''Durante la seconda guerra mondiale il paese fu teatro e vittima della strage di Marzabotto (29 settembre 1944) perpetrata dai nazifascisti.''
«Questa è memoria di sangue, di fuoco, di martirio, del più vile sterminio di popolo, voluto dai nazisti di von Kesselring, e dai loro soldati di ventura, dell'ultima servitù di Salò, per ritorcere azioni di guerra partigiana.»
(Salvatore Quasimodo, epigrafe alla base del faro monumentale che sorge sulla collina di Miana, sovrastante Marzabotto
Appendice seconda
La questione della violenza
La questione dell’abbattimento delle statue non mi trova concorde ma io rischio di essere un’anima bella e di fatto ,nel mio sommesso scrivere,complice di chi utilizza gli episodi delle statue e gli esiti ingiusti ed incontrollabili delle violenze per delegittimare e reprimere e le manifestazioni e il problema. Resta esemplificativamente chiaro,che il re dei Belgi Leopoldo II è stato ‘’il massacratore del Congo’’
Nel suo libro del 1961 “I dannati della terra” Frantz Fanon scrisse: “Colonialismo e imperialismo non hanno ripagato il loro debito dopo che si sono ritirati dai nostri territori. La ricchezza delle nazioni imperialiste è anche la nostra ricchezza. L’Europa è stata letteralmente creata dal Terzo Mondo.”
Appendice Terza
Sulla'' simbiosi tra religione e potere '' credo opportuno tacere sia''per carità di patria'',sia 'per carità a me stesso'' In questo ambito nessuno di noi è innocente e,in questo ambito,la mamma non ha mai partorito vergini
Ore 17,06 fermata Via Libertà -Ugdulena percorso verso Piazza Politeama. Mia moglie ed io pronti per recarci in Via Ruggero Settimo negozi abbigliamenti per bambini.Tra poco sarà con noi dalla Germania la nostra nipotina.Si presenta un bus della linea 101,un bus a ''doppio settore'' Entriamo in bus e notiamo che qualcosa sulle attuali regole non quadra ...''almeno 22 utenti presenti.''e qualcuno non indossa la mascherina.Tuttavia sembra che sostanzialmente la distanza di sicurezza sia o possa essere rispettata.
Fermata di Via Libertà-Piazza Croci. Il bus viene accolto ''con festosità palermitana''da una folla scatenata di una trentina di ragazzi e ragazze ,qualcuno a torso nudo,qualcuna urlante come ad un raduno dei cosiddetti ''cantanti neomelodici''.
Insomma bulli e bulle
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Lumpenproletariat-'' sottoproletariato urbano privo di coscienza di classe''
s. neutro tedesco (propr. proletariato straccione) usato in italiano come sm. Così Marx designò il sottoproletariato non inserito nel lavoro di fabbrica, senza inquadramento sindacale e senza coscienza politica, contrapponendolo all'autentico proletariato organizzato e composto dalle masse operaie.
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L'autista non dovrebbe aprire,dovrebbe fermarsi data l'impossibilità di continuare il percorso e chiamare regolarmente le forze dell'ordine.
Nulla di tutto questo.Apre gli ingressi...30+22. Siamo in 52.L'autobus è in mano ai 30 e probabilmente tale resterà fino alla Stazione Centrale,il capolinea.
Mia moglie ed io subito cerchiamo di evitare l'assembramento e tenerci pronti per la prossima fermata.Abbiamo deciso di andar comunque via da quella situazione.
Con fare ''da faccia di bronzo''-sono esperto nel settore-mi avvicino fino al divisore con l'autista e gli chiedo se per caso le note regole per i bus fossero terminate e quindi gli ingressi non più contingentati.L'autista farfuglia qualcosa di incomprensibile ma -nel nostro usuale linguaggio non verbale-con una mano mi comunica che nulla può farci e che,per favore,io non gli rivolga domande imbarazzanti
Appena scendiamo dal bus troviamo un ''controllore.mia moglie-anche lei esperta nel settore delle facce di bronzo con in più il valore aggiunto del sorriso-chiede se per caso le note regole per i bus fossero terminate e quindi gli ingressi non più contingentati. Stavolta il controllore ci narra che in questi giorni una sua giovane collega su un bus a Mondello era stata aggredita con calci e pugni da una ragazza a cui aveva proibito l'ingresso per il rispetto delle norme.La collega è ancora ricoverata.Ci ricorda che per l'Azienda le regole non sono cambiate e che la responsabilità è esclusiva dell'autista ''Ma non si può rovinare un padre di famiglia''
Palermo 2-coniugi Giovanni Gaetano e Nina 0
Ore 18,25 fermata di Via Roma-Chiesa Anglicana per rientrare a casa
Si presenta il bus della linea 101 affollato come ''etsi lex non daretur'' Non lo utilizziamo ma con fare gentile come se volessi chiedere una qualche informazione,faccio segno all'autista di aprire dal suo settore Gentilmente apre e gli rivolgo le usuali richieste
''Egregio Signore lei ha ragione.Ma per far rispettare le regole devono dare a noi autisti una pistola e un mitra.Lei ,per come si sta dimostrando,è persona perbene.Ma i nostri concittadini fanno schifo e l'azienda non ci protegge.Sta arrivando un successivo 101 Al momento è in regola.Ma non si faccia illusioni. La saluto''
Palermo 3-coniugi Giovanni Gaetano e Nina 0
Si presenta il successivo 101 in regola.Ma le illusioni finiscono alla fermata Libertà-Duca della Verdura.Capita l'antifona scendiamo.A casa si ritorna passeggiando
La Domenica delle palme delle chiese vuote, dei ramoscelli d’ulivo mai scambiati, delle benedizioni mancate. La Domenica delle palme di un mondo chiuso in casa tra paure, disagio e sofferenza. In mezzo alla strada, tra i caseggiati popolari, c’è solo un uomo in scarpe da tennis che si è messo sulle spalle una croce di legno, ha un ramo d’ulivo in mano e una brocca d’acqua. Sa che nel suo quartiere «la fatica di vivere è triplicata» e vuole mandare un solo messaggio chiaro: «Non siete soli, potete chiedere aiuto». Quell’uomo si chiama don Cristiano Marcucci, ha 48 anni, è da due anni e mezzo il parroco della parrocchia della Visitazione di Maria, nel quartiere Zanni di Pescara. Ottomila abitanti, tutte case popolari, «quartiere complicato ma molto dignitoso, di gente che combatte ogni giorno».
Quando ho visto la potenza del gesto, nelle foto che ha scattato Stefano Schirato, ho cercato don Cristiano, per farmi spiegare come è nato: «In questo tempo di Covid-19, in queste settimane che sembrano già un’era per quanto hanno cambiato le cose, ho visto la povertà crescere, la fatica di vivere diventare fatica di sopravvivere. È un quartiere abitato da persone che hanno i banchi nei mercati, da ambulanti, badanti, donne che lavorano nelle pulizie, piccoli artigiani, un mondo di lavori saltuari e sommersi. Ho visto moltiplicarsi le richieste di assistenza. La Caritas parrocchiale aiutava un gran numero di famiglie ma le domande sono raddoppiate solo negli ultimi 15 giorni. Ho immaginato che le persone facessero fatica a venire in parrocchia a chiedere aiuto, non è facile per la dignità, non è facile se non si è già abituali frequentatori della messa, ho immaginato che anche chi stava male e non aveva soldi per fare la spesa pensasse: “Come faccio ad andare dal parroco proprio adesso, non mi sono mai fatto vedere ed entro in chiesa adesso per chiedere il pacco con il cibo?” Allora mi sono collegato a una associazione laica che fa volontariato sul territorio, che solitamente si occupa di attività educative, di giochi per i bambini e di socialità per gli anziani e insieme abbiamo portato un messaggio di aiuto per i bisognosi, tutti i bisognosi».
«Poi è arrivata la Domenica delle palme, con le chiese vuote, con l’impossibilità di scambiarsi un gesto di pace, di fare la processione e di benedire i ramoscelli d’ulivo. Ma cogliendo la fatica ho pensato che fosse importante mandare un segnale forte di amore e di attenzione e tendere la mano alla comunità. Così sono uscito con il crocefisso di legno, il ramoscello d’ulivo e la brocca d’acqua e ho cominciato a camminare nel quartiere. La risposta è stata potentissima, quando mi hanno visto e sentito le persone hanno cominciato a venire alle finestre, a uscire sui balconi, mi sono fermato per un momento di preghiera collettiva e di benedizione di fronte a ogni portone, una processione lentissima che è durata molte ore. Ho visto uomini adulti e anziani che piangevano e facevano il gesto dell’abbraccio, ho sentito la fatica della solitudine, della paura, della sofferenza, della precarietà di vite travolte».
Don Cristiano aveva avvisato il suo vescovo e aveva chiesto il permesso al comandante dei vigili urbani, voleva evitare polemiche, ma era cosciente che tutti avrebbero capito la necessità di questa testimonianza. Il suo gesto ha subito fatto il giro della città e Stefano Schirato, fotografo con sensibilità particolare per le storie degli ultimi, è corso a documentare questa processione solitaria e mi ha raccontato l’eccezionalità di questo prete che lui conosce da molti anni: «Un uomo fuori dal comune, che usa ogni strumento per parlare alla sua comunità, dalle tecnologie – con l’uso di YouTube e i file audio su WhatsApp – al megafono in mezzo alla strada. Ha un credo fondamentale ed è quello di non escludere ed emarginare mai nessuno, ma andare a raccogliere chi finisce fuori, per questo fu il primo a creare gruppi per divorziati e risposati nella sua parrocchia e lo fece con Ratzinger come papa».
La sensibilità di don Cristiano verso la fatica del vivere è scritta nella sua biografia, nella dignità dell’esistenza: «Mia madre, che non c’è più da cinque anni, faceva la pasta all’uovo, papà, che oggi ha 82 anni, era sarto. La mia famiglia faceva fatica, so cosa stanno provando in molti oggi e cosa vuole dire non aver da mangiare per i figli. Ricordo quando ero bambino e mia madre cucinava una fettina che poi divideva tra me e mio fratello. Per loro non c’era mai la carne». Ma non è solo una questione di cibo e di bollette che non si riescono a pagare: «È un tempo doloroso, in cui si muore soli, in cui non si celebrano i funerali, in cui non esiste il conforto dei malati, l’estrema unzione, è una situazione di tristezza infinita. Erano riti considerati scontati e perfino superati, ma quando non ci sono più ci si rende conto del loro valore. In queste settimane ho benedetto 15 salme in mezzo alla strada di fronte al cimitero, perché nemmeno i parenti più stretti ci possono entrare, e ho sentito la mancanza infinita dell’ultimo saluto. Un vuoto e una ferita che la nostra società si porterà dietro a lungo».
Don Cristiano da anni lavora per ricucire le ferite e gli strappi della società, che questo funzioni lo racconta il fatto che alle sue messe ci si debba portare la sedia da casa tanto sono affollate. Ma questa volta bisognava davvero andare casa per casa, stare nella strada e da lì mandare una voce. «Ho sentito anche che il messaggio di aiuto è stato recepito e apprezzato, non mi aspettavo una risposta così potente e partecipata. È stata la Domenica delle palme più bella e intensa della mia vita».
«Gentile Mr. Smith, avevamo in programma di ucciderla il 4 giugno. Purtroppo, il Covid ha cambiato i nostri piani. Le diamo un nuovo appuntamento per ucciderla il 4 febbraio 2021. Cordiali saluti». Il testo della decisione di questi giorni della Corte suprema del Tennessee sul caso di Oscar Franklin Smith non dice esattamente così, ma il senso è quello. Uno degli effetti collaterali (positivi) del Covid-19 negli Usa, è che ha messo in crisi anche la sempre prolifica macchina delle condanne a morte. Ma gli Stati si stanno riorganizzando e presto riprenderanno a uccidere i vari Mr. Smith in attesa nei bracci della morte. Qualche Stato non si è lasciato intimorire neanche dal coronavirus: per esempio il Missouri, che il 19 maggio ha eliminato con un’iniezione letale il condannato Walter Barton.
Smith adesso ha altri otto mesi da vivere in attesa di morire, che vanno ad aggiungersi ai 30 anni già passati da quando fu condannato a morte per l’assassinio della ex moglie e dei loro due figli. Ormai è un settantenne che la società potrebbe tranquillamente lasciar morire in cella all’ergastolo (o anche valutare se non si sia guadagnato la possibilità di attendere la morte fuori da un carcere). Ma l’America della pena di morte non arretra di un millimetro. Il Covid è solo una temporanea battuta d’arresto: nei bracci della morte americanici sono 2.620 persone in attesa di essere terminate con un’iniezione letale e gli arretrati dovranno essere recuperati in fretta. Anche se i ritmi non sono più quelli di fine anni Novanta-inizio anni Duemila, quando le camere della morte lavoravano a pieno ritmo. In quegli anni del picco di esecuzioni vivevo e lavoravo come giornalista negli Usa e nessuno tra i tanti temi che ho raccontato mi ha mai colpito più della pena di morte.
L’America ci affascina e ci interroga anche per le sue innumerevoli contraddizioni, come testimoniano questi giorni di tensione e scontro sui temi del razzismo, dell’abuso di potere, della libertà di espressione e di protesta. Con tutto quello che è successo negli ultimi anni, la pena di morte sembra quasi un tema secondario, lontano dai riflettori e dalle priorità del momento. Eppure, l’incapacità di rinunciare alla pena capitale resta la più vistosa e drammatica delle contraddizioni, soprattutto per l’insistenza nel negare la possibilità di una riabilitazione in carcere e nel non considerare mai chiuso un caso fino a quando non si è data ai familiari delle vittime la possibilità di quella che viene chiamata closure. La presunta pace che porterebbe il sapere che finalmente vendetta è fatta. Occhio per occhio, dente per dente. È vero, c’è la pena di morte anche in Cina o in Arabia Saudita. Ma inevitabilmente si pretende di più da un Paese che si professa culla della democrazia e che è stato fondato sulla promessa di proteggere «Life, Liberty and the pursuit of Happiness».
Di pena di morte americana è quindi giusto continuare a parlare, anche ora che i numeri delle condanne eseguite sono diventati molto piccoli. Perché se c’è un tema su cui è sbagliato concentrarsi sui numeri, è proprio questo. L’ho capito quando l’argomento generico “pena capitale” è diventato per me nomi, volti, storie. Due in particolare.
Una tiepida sera del settembre 2000, un gruppo di giornalisti italiani tra cui chi scrive, insieme a Oliviero Toscani, protagonista delle campagne contro la pena di morte firmate Benetton, si sono ritrovati in un luogo insolito: il parcheggio all’esterno del Greensville Correctional Center, a Jarratt, il luogo dove la Virginia mette a morte i propri dead men walking. Un posto sperduto in mezzo ai boschi, dove siamo arrivati in tanti per l’esecuzione di un italoamericano, Derek Rocco Barnabei. Avevo intervistato Derek Rocco varie volte nei mesi precedenti, ho seguito la sua vicenda di condannato che fino all’ultimo istante si è proclamato innocente dell’omicidio che gli veniva attribuito e quella sera ero là per raccontare il triste epilogo di una storia che si ripete nelle camere della morte di mezza America.
Il copione è più o meno sempre quello: il detenuto disteso sul lettino, gli aghi infilati nel braccio, una dose di sodio tiopentale che entra nelle vene per fargli perdere conoscenza, seguita dal bromuro di pancuronio per paralizzargli i muscoli e infine dal cloruro di potassio per provocare l’arresto cardiaco. La differenza, per me, era che stavolta quel detenuto non era solo un numero. Era una persona con la quale avevo scambiato lettere e telefonate, di cui conoscevo la famiglia e gli amici e che mezz’ora prima di morire, parlandomi per telefono dalla cella al fianco della camera della morte, con una voce carica di paura e adrenalina difficile da dimenticare, mi aveva detto: «Fai in modo che non si dimentichino di me».
Nei mesi successivi, pensando a Derek e riflettendo su come continuare a raccontare la pena di morte dando un volto a persone che troppo spesso sono solo fantasmi, mi sono messo alla ricerca di altri “italiani d’America” nel braccio della morte. Non che il fatto di avere radici italiane significasse qualcosa di particolare, nel panorama degli oltre 3.400 uomini e donne che negli Usa in quel momento passavano il tempo aspettando di essere giustiziati. Ogni vita umana che se ne va per iniezione letale, sedia elettrica, camera a gas o plotone d’esecuzione (un paio di Stati lo prevedono ancora), ha un valore in quanto tale, non perché porta un cognome italiano o messicano, una pelle bianca, nera o quant’altro. Ma il caso Barnabei, con le folle in piazza in Italia a seguire in diretta l’esecuzione in Virginia, aveva dimostrato che inevitabilmente negli italiani scattava un motivo di attenzione in più nel sapere che si parlava di un figlio di immigrati delle nostre terre, piuttosto che di un ragazzo messicano di una gang di Los Angeles.
È così che dalle sterminate liste degli ospiti del braccio della morte, è saltato fuori un “signor Rossi” in attesa del boia in Arizona in un posto con un nome che a sua volta richiamava l’Italia: Florence. Un personaggio impensabile che nel tempo è diventato mio amico.
Florence è una cittadina di seimila abitanti, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione sull’asse Phoenix-Tucson, che sognava di diventare protagonista di una corsa all’oro sulle vicine Superstition Mountains. Quando l’oro si è rivelato solo una superstition, la città si è buttata su un altro business: quello delle prigioni. È dalla fine dell’800 che l’Arizona custodisce i detenuti a Florence. Durante la Seconda Guerra Mondiale vi vennero realizzati anche campi di detenzione per i prigionieri nemici e ancora oggi, nel museo locale, si possono ammirare foto ingiallite di volti siciliani, rosari, immagini della costiera amalfitana: sono le reliquie che ricordano la prigionia dei molti italiani che trascorsero qui lunghi mesi, talvolta anni di detenzione nel deserto. Dal 1910 a Florence l’Arizona ha anche cominciato a giustiziare i propri condannati a morte. Una faccenda che un tempo si sbrigava in fretta, con le impiccagioni. Ma nel 1930 la prima donna a venir giustiziata, Eva Dugan, restò decapitata e l’orrore per l’accaduto spinse le autorità a passare alla più “civile” sedia elettrica. Oggi lo Stato ammazza con l’iniezione letale, ma lascia aperta anche l’opzione della camera a gas.
Le prigioni di Florence sono più o meno accessibili secondo la pericolosità dei loro ospiti. Il carcere più protetto di tutti è l’Eyman Complex e al suo interno l’unità più isolata è la Special Management Unit II (Smu-II), dove convivevano detenuti di massima pericolosità e i condannati a morte dell’Arizona. Nel 2004 sono entrato nella Smu-II per andare a incontrare, dopo tre anni di scambi di lettere e qualche complessa telefonata, una delle 128 persone che là dentro erano in attesa di essere ammazzate: Richard Rossi, Richie per gli amici, il detenuto numero 50337 del sistema dell’Arizona State Prisons.
Richie era il figlio di Andrea “Andrew” Rossi, emigrato negli Usa da Roma, e della napoletana Angelina Rossetti. La coppia lo mise al mondo il 30 giugno 1947 a Brooklyn e il piccolo Richard era cresciuto nella vivace comunità italoamericana locale, prima di trasferirsi a Phoenix, in Arizona, dove ha commesso l’errore che è costato la vita a un altro e ha rovinato per sempre anche la sua. La notte del 29 agosto 1983, schiavo degli effetti della cocaina, uccise a colpi di pistola Harold August durante un litigio legato alla vendita di una macchina per scrivere. Una vicina di casa di August fu colpita a sua volta, ma se la cavò.
Richard Rossi ha sbagliato e non lo ha mai negato. Ma si è trovato chiuso per sempre in un luogo che non ammette la possibilità che un uomo possa cambiare, neppure dopo più di 20 anni di cella. Un posto dove non c’è spazio per il perdono e per una seconda possibilità. Dai tempi del suo processo, celebrato quando ancora alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, Richie ha aspettato paziente di morire di iniezione letale e ha riempito il tempo scrivendo a un gran numero di amici o mettendo su carta pensieri e analisi sul sistema carcerario, sotto forma di saggi o di poesie. Un suo libro, pubblicato in Italia con il titolo “La mia vita nel braccio della morte” (Tea Edizioni), è una delle testimonianze più dettagliate che conosco di come trascorre il tempo un condannato. Per 23 ore e mezzo, il mondo di Richie era una tomba di cemento di 3 metri per 2 metri e 20, senza finestre e con una porta di metallo traforato che non concedeva niente alla privacy. La mezz’ora restante era quella d’aria, in una gabbia solitaria all’aperto nei 40 gradi dell’Arizona, con l’unica compagnia di una pallina di gomma da tirare contro il muro, per fare esercizio.
Per parlare con Richie e gli altri detenuti, nella grande sala colloqui del carcere, occorreva quasi urlare con la bocca appoggiata a una sottile intercapedine metallica, l’unica fessura attraverso la quale i suoni potevano raggiungere l’interlocutore, dall’altra parte di un vetro antiproiettile. Prima di entrare nella sala, occorreva sottoporsi alla lunga trafila dei controlli attraverso barriere di filo spinato e cemento, dopo essersi assicurati di aver rispettato tutti gli articoli del regolamento. L’elenco dei divieti era lungo due pagine e prevedeva, tra le altre cose, l’obbligo di non indossare jeans e di lasciar fuori soldi, gioielli, oggetti metallici di ogni genere, persino pezzi di carta. Eppure, quando superavi le lunghe trafile burocratiche e arrivavi finalmente di fronte a Rossi, trovavi un uomo sorridente, che raccontava barzellette e sembrava sapere del mondo esterno più cose di chi vive la quotidianità senza vincoli e sbarre, ma in modo distratto.
Richie alla fine ha fregato lo Stato dell’Arizona: è morto di cause naturali, prima che lo ammazzassero. Nei suoi ultimi anni, aveva preso l’abitudine di spedire per posta alle mie figlie figurine di carta fatte a mano nelle sue lunghe ore vuote. Erano uccelli, angeli, quasi sempre creature con le ali. Era il suo modo di esprimere la voglia di volare di chi è costretto dentro una gabbia.
*Marco Bardazzi ha girato il mondo per un trentennio come giornalista. Per dieci anni ha raccontato l’America agli italiani da New York e Washington per l’Ansa, poi ha lavorato alla “Stampa” e ora guida la comunicazione di Eni.