giovedì 28 marzo 2019

Sergio Quinzio. ....Gerusalemme

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"...una fondamentale contrapposizione, che è stata vista da molti, tra quella che è l'ottica greca, che è quella in cui il mondo classico ci è pervenuto classicamente, e quella ebraica. Il cosmo greco è un cosmo sostenuto da un "logos", da un ordine, cioè qualche cosa che ha una consistenza, una compattezza, mentre invece nell'ottica ebraica il mondo è puramente contingente, è creato da Dio e come tale è qualcosa che Dio mette in atto ma che in qualunque momento potrebbe revocare a sé - e sa il racconto ebraico, la leggenda ebraica di Dio che avrebbe creato duecentocinquantatre mondi prima di questo, ma li aveva creati secondo la misura della giustizia, per cui dinanzi alla sua perfetta giustizia non potevano sussistere, e quindi ha dovuto distruggerli, fin quando ha creato questo, che è secondo la misericordia, cioè viene tollerato anche il male e per questo può sussistere."

" ....io credo, che ci sono due atteggiamenti diversi: il tempo pagano, se vogliamo usare questo termine, è il tempo della natura - nella natura tutto ritorna, il giorno e la notte si succedono e si succedono le varie stagioni, si succedono le varie generazioni e ad ogni primavera rifiorisce la natura -, allora in questo senso il tempo è un tempo che ritorna continuamente e come tale il futuro non ha in definitiva senso, perché tutto quello che è già stato in qualche modo o identico o simile tornerà ad essere ancora; (....)  Nell'ottica biblica il tempo è lineare, è un tempo non più ricalcato sui ritmi del cosmo ma ricalcato sui ritmi della storia, perché Dio, il Dio biblico, è un Dio che interviene nella storia: crea, manda i suoi profeti, unge i suoi re. Tutta la vicenda in cui si articola il corso del tempo biblico è una vicenda in cui si compiono degli eventi che sono degli eventi storici, e questo fino alla fine del mondo. Queste due strutture sono incompatibili una con l'altra"

"Come sostiene Benjamin nelle "Tesi sulla filosofia della storia", la storia del mondo acquista un senso: può essere riconosciuta una concatenazione fra un'epoca e l'altra, non perché viene conosciuta dal presente ma perché dal futuro escatologico viene proiettata e riceve luce, tutto quello che è accaduto nel passato riceve luce dal suo esito; quello che per il mondo greco è l'origine, per il mondo ebraico in fondo è la meta. Krause dice "La meta è l'origine".

Vorrei ricordare che Gerschom Scholem, grande studioso dell'ebraismo, afferma che l'orizzonte messianico è inseparabile dall'orizzonte apocalittico. Ossia, è vero che c'è un ottimismo storico, una progettualità, un qualcosa che ci fa vedere il futuro come futuro salvifico - il regno di Dio, la giustizia di Dio che si realizza completamente -, ma è vero che questo non avviene attraverso un processo graduale di crescita, secondo la tradizione originariamente ebraico-cristiana, ma avviene attraverso quello che è stato chiamato un "giudizio", il giudizio di Dio sulla storia del mondo"

Quando il profeta Isaia dice che nel giorno di Dio splenderanno nel cielo sette soli, esprime che non c'è una gradualità, ma che c'è questa rottura, quest'irrompere di una realtà ulteriore nei confronti della quale non si perviene scalino dopo scalino. D'altra parte, è vero che proprio l'aspettativa di un futuro redento, di un futuro salvato, rende addirittura invivibile la vita dell'uomo. È un paradosso. L'uomo pagano, per usare questo termine, accetta un fato: le cose sono come sono, prima si è giovani e poi si è vecchi, prima si è vivi e poi si è morti, d'inverno fa freddo e d'estate fa caldo. Le cose stanno così, non c'è nulla da fare e per questa via si perviene a una certa rassegnazione, cioè se ne regge il dolore: è la "mesòtes", la "giusta misura" fra le cose. Si crea, magari con un fondo di tristezza, una forma di equilibrio, una forma di stabilità.. Invece l'uomo biblico è un uomo che viene sempre sollecitato da questo pungolo per cui le cose potrebbero essere radicalmente diverse da quelle che sono. Scholem dice che allora l'uomo ebreo vive nel futuro; ma nel futuro non si può vivere perché l'uomo vive sempre nel presente. L'uomo che ha quest'aspettativa finale, escatologica, questa storia che ha una meta, è un uomo totalmente infelice, un uomo totalmente lacerato. Kafka, Krause e tutti i grandi autori ebrei, testimoniano di questa condizione, cioè di un uomo che non è contento delle cose come sono; ci si mette nell'atteggiamento che le cose non dovrebbero essere così come sono, il bambino non dovrebbe morire. Questo rende la vita infelice, perché ogni volta si fa l'esperienza del contrario."

Lutero è stato, secondo me, un potente restitutore dell'ottica biblica. Nel mondo prima di Lutero sostanzialmente c'erano dei ruoli sacri, permanevano ancora dei ruoli sacri e dei ruoli profani: un conto è il sacerdote che celebra o il monaco che prega, un altro conto è il contadino che zappa: la prima operazione è sacra, la seconda è profana. Proprio ritornando alla Bibbia, alla "sola scriptura", solo Dio è diverso: la sacralità e la santitá appartengono esclusivamente a Dio, tutti gli altri ruoli umani, che siano quelli del vescovo o che siano quelli di chi fa il lavoro più basso e più umile, sono tutti connotati allo stesso modo, perché la sacralità è totalmente posta in Dio. Nasce questo strano destino della parola tedesca "Beruf", perché "Beruf" è la "vocazione" intesa come vocazione religiosa, la vocazione a diventare sacerdote, a farsi religioso. Invece il Beruf ha acquistato anche linguisticamente il significato di "incarico", di un "compito" raffinato: c'è il Beruf del giardiniere, c'è il Beruf del pescatore, e così via. In questo senso Lutero ci ha riportato alle origini bibliche."

"Ulisse fa un percorso circolare; come la storia è una storia ciclica, così il percorso, il tempo è ciclico. Ulisse parte, compie una vicenda molto tormentata, molto dolorosa, piena di prove, però ritorna a Itaca. Questa è la vicenda omerica. Invece la vicenda di Abramo è una vicenda in cui anche lo spazio, come il tempo, è lineare, perché: "Abramo, va e parti!". Per dove? Nessuno dice dove devi andare, non c'è nessun luogo al quale tu debba tornare o al quale tu debba approdare, tu semplicemente vai. In questo senso è un nomadismo molto più radicale;(...) acconto ebraico dei due ebrei che si incontrano: "Dove vai?" "Parto" "Ma dove vai?" "Vado lontano" "Ma lontano da dove?". Non c'è un dove: in questo senso Abramo va, ma non ha nessuna garanzia del senso, della direzione e del dove dovrà giungere. Quindi anche lo spazio, non solo il tempo ebraico, è aperto."

o continuo a dire che è enormemente prevalente nell'orizzonte ebraico-cristiano quest'idea di Dio del quale non si parla. Non c'è discorso tematico su Dio, perché o Dio parla e ci rivela la sua volontà e ci dà i suoi ordini, oppure a Dio si parla per pregarlo, per chiedergli qualcosa, per adorarlo; al di fuori di questo non c'è nessuna possibilità.(..) nell'orizzonte biblico prevale enormemente la parola di Dio anche quando contraddice totalmente tutte le regole che si possono dedurre dalla esperienza naturale; per esempio, quando Dio ordina ad Abramo di uccidere il figlio, evidentemente va in una direzione totalmente opposta a quella che è la legge "naturale"; o quando gli promette un figlio dal grembo sterile e vecchio di Sara essendo lui centenario, in definitiva prevale sempre l'aspetto paradossale "

 Si legge ancora questa tensione estrema tra quelle che sono le categorie greche, con le quali è stato rivestito il messaggio biblico e che attraversano un lunghissimo sincretismo medievale e moderno, per arrivare a rendersi conto che sono due categorie inconciliabili, anche se c'è chi continua a tentare di conciliarle: ma probabilmente sono in effetti irriducibili l'una all'altra."

la parola di Dio è una parola che trascende di gran lunga le possibilità di comprensione. Quando gli Ebrei dicono che ogni versetto biblico ha almeno settanta significati, questi settanta significati non esauriscono il significato del versetto biblico, tanto che l'ipotesi è sempre che la venuta del Messia dia una lettura talmente piena di quel versetto biblico, di quella rivelazione biblica, che gli uomini non hanno potuto o non hanno saputo dare in tutto il corso della storia. " (...)Leggendo il versetto si danno letture diverse, e tutte hanno una loro legittimità; ma, a differenza dell'ermeneutica moderna, c'è un appello alla rivelazione finale, messianica: alla fine verrà il Messia e rivelerà tutto. Non so se Lei ricorda questi due esempi: due saggi che discutono nel giardino della Sinagoga: "Se è vera questa interpretazione del versetto, questo fiume retroceda", dice uno; e infatti il fiume retrocede; e l'altro dice: "Se è vera la mia interpretazione contraria, il muro di questa Sinagoga cada". In effetti tutti hanno degli argomenti, ma nessuno ha l'argomento decisivo e questo credo che sia il senso dell'atteggiamento ermeneutico, non esistono che interpretazioni. Con la differenza che lá esiste la verità, e anche se per qualcuno dei nostri ermeneuti esiste la verità, questa è una verità che non si sa bene come coesista con l'interpretazione."

una dialettica che ha un suo superamento immanente, perché in effetti viene risolta messianicamente, viene risolta nei "nuovi cieli e nuova terra". Quello che colpisce è proprio tutta la struttura del Talmud. Il Talmud sono dei verbali di assemblee accademiche di rabbini, in cui si alzò un rabbino e disse: "Questo versetto significa questo, questo e quell'altro"; l'altro rabbino disse: "No, è sbagliato, questo versetto va interpretato così"; è il verbale di queste continue contraddizioni, senza mai la preoccupazione di conciliarle. Invece i nostri filosofi direbbero: "No, a questo punto cerchiamo di conciliare; tu hai detto questo, egli ha detto quello, vediamo come queste cose possono essere messe insieme, possono stare assieme". Lá non stanno insieme. Quindi c'è una coscienza tragica che l'uomo, fin dalla condizione premessianica, di esilio, non può pervenire a nessuna sintesi compiuta. "

Bonhoeffer afferma - fedele a tutta la tradizione protestante, luterana perlomeno - che il vero peccato originale consiste nel fatto che l'uomo ritiene di poter scegliere tra bene e male. L'uomo avrebbe una conoscenza al di sopra delle situazioni che gli consentirebbe in ogni momento di dire che questo è bene e questo è male, di fare la scelta buona o fare la scelta cattiva. Questa sarebbe l'etica. Se per etica dobbiamo intendere questo, l’etica è il peccato originale, cioè la presunzione che l'uomo possa distinguere tra il bene e il male. Credo che pochissimi mi perdonerebbero l’affermazione che nell'ebraismo l'etica non è fondamentale.(...)Un pio ebreo, al quale si chiedesse "Tu perché non mangi gli animali marini che non hanno squame?", risponderebbe che è una norma che viene data da Dio e che non puó neanche mettere in discussione, perché se mi cominciassi a domandare perché è stata data questa norma, mi avventurerei in quella via proprio etica in cui tenderei a giustificare, a trovare una motivazione dei miei comportamenti. L'obbedienza alla legge di Dio non è un fatto etico, tanto che dice: "Tu uccidi tuo figlio", "Tu uccidi i popoli che occupano la Terra Santa", quindi non è un'etica. Il peccato non è la colpa in senso etico: questa è la differenza. In altri termini, l'unica cosa che si può dire, da ebreo, è che una cosa è giusta perché Dio la comanda. Ma questa non è etica, perché un'etica totalmente eteronoma - la norma c'è, io la obbedisco, non so perché, non ho diritto di interrogarmi sul perché, non posso trovare motivazioni razionali - non è più una dottrina etica; questa è semplicemente l'obbedienza a un comando."

. Io credo che fondamentalmente, quando Freud dice che la sofferenza non nasce dalla colpa, ma la colpa nasce dalla sofferenza, abbia ragione, mi sembra molto giusto.

". C'è una struttura fondamentale biblica che dice: "Questa è la legge che io ti do -dice Dio al suo popolo-: se tu la osserverai vivrai, se tu non la osserverai morrai". Ma c'è anche tutta l'esperienza profetica, in cui colui che compie il male spesso vive bene e colui che compie il bene spesso vive male. Lo scandalo di questo fatto, che non c'è corrispondenza tra legge e conseguenze dell'obbedienza o disobbedienza alla legge, è qualche cosa che fa sì che già all'interno dell'ebraismo esista questa duplicità, un luteranesimo ur-biblico. In fondo chi è che viene salvato? Viene salvato il resto, il piccolo resto di Israele. Chi sono questo resto di Israele? Sono l'uomo della terra - anche Gesù ripeterà la stessa cosa -, sono coloro che non sanno la legge; lo dirà ancora Kafka, quando parlerà degli ebrei orientali, i peggiori, che non rispettano la regola di Kasherut, che mangiano quello che trovano, che litigano, che tirano fuori il coltello; ma hanno l'attaccamento alla vita che gli altri non hanno. Quindi c'è già nell'orizzonte dei profeti questa salvezza promessa a chi non osserva la legge. "Le prostitute, i pubblicani vi precederanno nel regno dei cieli", ma già i profeti lo dicevano: verrà salvato proprio quel resto di popolo che non conosce la legge; Gesù viene applaudito dal popolo e viene condannato dall'autorità religiosa e politica."

Anche il "sine glossa", il tentativo di uscire dalla metafora, non può avere un successo pieno: ciò non toglie che noi dobbiamo avere il coraggio di cercare il più possibile di avvicinarci alla lettura originaria, ben sapendo che questa dava luogo a interpretazioni diverse. Anche la nostra non può essere altro che un'interpretazione, però bisogna tener fermo che un senso c'è e sarà quello rivelato messianicamente, escatologicamente, "

Qualche volta penso, per esempio, alle lamentele di Leopardi contro la natura matrigna, terribile, che fa soffrire le sue creature, le uccide, "lo sterminator Vesevo": ma questo è molto cristiano, perché un autore pagano non avrebbe avuto nessun motivo di scandalizzarsi del fatto che la natura fosse matrigna. Leopardi si scandalizza per la buona ragione che credeva che la natura dovesse essere madre. Ecco allora che l'idea del male come prova contro Dio diventa paradossalmente una conferma di Dio, perché noi non avremmo neppure l'idea del male se non potessimo contrapporla alla perfezione di un bene."

d’altro canto è anche vero che l'uomo può disubbidire a Dio, non è mai costretto. Dunque, questa libertà, che è pur data da Dio, si può rivolgere contro la stessa legge di Dio: in altre parole, se per un verso Dio ci impone la sua legge, dall’altro ci lascia liberi, ci offre la possibilità di violarla, pertanto si può giocare su tutti e due i piani. C'è l’elemento del conflitto con Dio che torna poi in tutto il chassidismo: si litiga con Dio. Ci sono dei bellissimi racconti chassidici, per esempio in Buber, in cui con Dio si litiga; ci sono delle storie chassidiche in cui Dio viene trascinato dinanzi al tribunale rabbinico: "Tu hai promesso a chi osserva la legge ogni bene e invece io sono stato colpito da questa e questa disgrazia"

a fede, se la portiamo alla sua estrema radicalità, è la negazione di ogni possibilità di conoscenza. San Paolo nella "Lettera ai Romani" scrive: "Come uno non può sperare quello che già possiede - perché se ce l'ha non lo può sperare -, così nessuno può credere in qualche cosa che già conosce", per cui la fede è sostanzialmente mancanza di conoscenza(...) in questo orizzonte non c'è nessuna conoscenza, c'è soltanto una speranza, c'è soltanto un'invocazione, c'è soltanto una volontà: Horkheimer parlava di una “nostalgia del totalmente altro” quando diceva: "Io non sono disposto ad accettare una realtà in cui il carnefice prevalga eternamente sulla vittima". Non sa quale sarà il destino del carnefice, quale sarà il destino della vittima, fino a che punto potrà rispondere a questa sua esigenza di non vedere il carnefice sempre prevalere sulla vittima: non lo sa, però lo spera, però lo crede."

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